Guardando il film di James Gray con Brad Pitt sembra di stare dentro ad una bolla: il senso dello scorrere del tempo è come rarefatto. Rarefatto come l’atmosfera che immagino si respiri nelle astronavi in viaggio nello spazio o anche nei corridoi delle basi sotterranee. Non è lento… è rarefatto. In un film lento sembra che non succeda mai nulla. Durante questa storia, invece, la narrazione procede. Mentre nella prima parte c’è più azione, nella seconda l’azione lascia più spazio all’introspezione. Ecco: più che un viaggio nelle profondità del nostro sistema solare, sembra più un viaggio nelle profondità dell’essere umano. Il protagonista è in viaggio per raggiungere il padre ma anche per decifrare il rapporto con lui e, di riflesso, con sé stesso e i propri limiti. La sua sensazione di solitudine è palpabile. Alla fine ci affanniamo tanto a rincorrere traguardi sempre più impegnativi, alla ricerca di un appagamento personale e del senso della vita, ma non ci rendiamo conto che il senso è proprio davanti ai nostri occhi nella normalità e nella banalità (se vogliamo) delle relazioni con chi ci circonda e degli affetti, che si tratti dell’amore di un partner o di quello della famiglia. Brad Pitt ha praticamente una sola espressione per tutta la durata del film… ma forse è qualcosa di voluto, visto che riesce a trasmettere un senso di alienazione. Consigliato? Sì, certo. A patto che non crediate che sia un film di fantascienza nel senso più puro e immaginifico del termine. Durante la visione, chi mi accompagnava ha osato un “Cheppalle!”. Io ho risposto: “E se avessi visto 2001 Odissea nello Spazio, che avresti fatto? Ti saresti suicidato?”. Ecco: più vicino a “2001: Odissea nello Spazio” che a “Sopravvissuto – The Martian”.
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